©

Dott.ssa Flaminia Fiory – Psicologa  
Iscritta all'Albo degli Psicologi della Regione Toscana, n. 11424

P.IVA 01495730457

Diagnosi Adhd e Profilo funzionale: due strumenti diversi per capire ed aiutare meglio

19/10/2025 19:22

Flaminia Fiory

Negli ultimi anni si sente parlare sempre più spesso di diagnosi di ADHD e di profilo di funzionamento, due strumenti che vengono talvolta confusi o c

 

Negli ultimi anni si sente parlare sempre più spesso di diagnosi di ADHD e di profilo di funzionamento, due strumenti che vengono talvolta confusi o considerati alternativi, ma che in realtà rispondono a bisogni diversi e possono convivere in modo utile se usati nel momento e nel modo giusto. 

Capire la differenza tra i due approcci significa comprendere meglio non solo cosa “non funziona”, ma anche come una persona funziona, quali risorse ha e in che modo può esprimerle nel proprio contesto di vita, scolastico o lavorativo.

La diagnosi di ADHD è un atto clinico: si basa su criteri precisi descritti nei manuali diagnostici internazionali, come il DSM-5, e viene formulata da professionisti della salute mentale — neuropsichiatri, psicologi o psicoterapeuti — attraverso una valutazione dei sintomi. 

La diagnosi serve a dare un nome a un insieme di difficoltà che si manifestano in modo persistente e pervasivo, come la disattenzione, l’impulsività o l’iperattività. Il suo obiettivo principale è identificare la presenza di un disturbo e permettere l’accesso a tutele, interventi mirati o trattamenti specifici, sia di tipo psicologico che farmacologico. 

La diagnosi ha un grande vantaggio: riconosce il diritto della persona ad essere compresa e sostenuta, evitando che le difficoltà vengano scambiate per pigrizia, scarso impegno o mancanza di disciplina. Inoltre, una diagnosi formalmente riconosciuta può aprire le porte a misure compensative e dispensative in ambito scolastico o universitario, a supporti lavorativi e a un percorso terapeutico più chiaro.

Tuttavia, la diagnosi presenta anche dei limiti. 

È per sua natura una fotografia statica, costruita a partire da criteri che mirano a descrivere un disturbo, non una persona. In questo senso, rischia di ridurre la complessità individuale a un’etichetta clinica. Il rischio più comune è che, una volta ottenuta la diagnosi, l’attenzione si concentri solo su “ciò che non va” — i sintomi, le difficoltà, i comportamenti problematici — trascurando le risorse, i contesti e le modalità personali di adattamento. 

Inoltre, la diagnosi non spiega sempre come le difficoltà si manifestano nella vita quotidiana, né perché una persona, pur avendo tratti simili a quelli descritti dal disturbo, riesca magari a compensarli in alcuni contesti ma non in altri.

Il profilo di funzionamento nasce invece con un intento diverso. Non si tratta di una diagnosi, ma di una descrizione approfondita del modo in cui una persona pensa, apprende, gestisce le emozioni e interagisce con l’ambiente. 

È un approccio più dinamico, che non punta tanto a stabilire se ci sia o meno un disturbo, quanto piuttosto a comprendere come funziona la persona nella realtà concreta: quali sono le sue aree di forza, quali i punti di vulnerabilità, quali strategie spontanee adotta per affrontare le difficoltà. 

Il profilo di funzionamento si costruisce attraverso una valutazione psicologica articolata, che tiene conto non solo dei test cognitivi o attentivi, ma anche degli aspetti emotivi, relazionali e motivazionali.

Il suo principale vantaggio è la flessibilità. Permette di cogliere sfumature che una diagnosi non può restituire e di proporre interventi personalizzati, centrati sulla persona e non sul disturbo. È particolarmente utile nei casi in cui le difficoltà non sono così marcate da soddisfare tutti i criteri diagnostici, ma incidono comunque sulla qualità della vita o sul rendimento scolastico.

Nel caso dei bambini, il profilo di funzionamento consente di osservare l’evoluzione delle competenze nel tempo, adattando gli interventi man mano che il bambino cresce e cambia.

D’altra parte, il profilo di funzionamento non ha valore “legale” o medico: non permette di accedere a certificazioni, agevolazioni o piani personalizzati in ambito scolastico, se non è accompagnato da una diagnosi clinica. In alcuni casi, questo può rappresentare un limite concreto, soprattutto quando la scuola o i genitori hanno bisogno di strumenti formali di supporto. Inoltre, la mancanza di una diagnosi può rendere più difficile comunicare la natura delle difficoltà ad altri professionisti o ottenere il riconoscimento necessario per determinati interventi.

La scelta tra diagnosi e profilo di funzionamento dipende anche dall’età e dal momento del percorso evolutivo. Nei bambini più piccoli, quando il quadro è ancora in formazione e i comportamenti possono essere influenzati da fattori maturativi, ambientali o emotivi, spesso è più utile partire da un profilo di funzionamento. 

Permette di osservare come il bambino si sviluppa, di potenziare le sue risorse e di evitare etichettature precoci che rischiano di condizionare la percezione di sé e le aspettative degli adulti. 

Nelle età successive, quando le difficoltà si consolidano e iniziano a interferire in modo significativo con la vita quotidiana o con il rendimento scolastico, la diagnosi diventa uno strumento prezioso per dare un nome a ciò che accade e per costruire un percorso di supporto mirato.

In realtà, le due prospettive non dovrebbero essere viste come alternative, ma come complementari. 

La diagnosi risponde al cosa: identifica la presenza di un disturbo. 

Il profilo di funzionamento risponde al come: descrive la persona nella sua unicità. Insieme, offrono una visione più completa, capace di unire la precisione clinica alla comprensione umana. Perché alla fine, l’obiettivo non è semplicemente “etichettare” o “descrivere”, ma permettere alla persona di conoscere se stessa, di essere riconosciuta e di trovare le condizioni per funzionare al meglio nel proprio mondo.